ESCURSIONI ESTIVE 1984 IN VALTELLINA: NOI C’ERAVAMO!

| Ugo ROSSI | Racconti
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E mi sentivo un artigliere da montagna vissuto in tempo di pace, perchè proprio 45 anni prima, in aprile, lo ero diventato; tante cose erano successe da allora, la maggior parte belle e alcune un poco meno ma andando a rovistare nello zaino dei ricordi e srotolandone il filo con la mente libera di viaggiare senza condizionamenti, mi rimaneva un grandissimo dubbio. È la nostra vita un susseguirsi di fatti che capitano solo per caso e senza una apparente ragione oppure ogni cosa avviene perché, tra le mille probabili, noi ci mettiamo nella condizione di far succedere l’unica che abbia la possibilità di avverarsi? Se osservi le cose mentre avvengono ecco che hai la netta sensazione che sia il caso a governare e che la maggior parte degli avvenimenti di una vita intera succedano senza un apparente motivo. Se invece osservi con attenzione la parte della tua vita dopo che è passata ti sembra di vederla come un grandissimo fiume che scorre lento ma dove ogni singolo affluente ed ogni singolo ruscello e corso d’acqua sta lì, al suo posto, perché non potrebbe essere altrimenti.

Mi vedevo come un torrente di montagna che scende spumeggiante e gira attorno a questo e a quel masso che trova lungo il suo percorso con la naturalezza di chi incontra un ostacolo sulla sua strada e lo supera non per un semplice caso ma nell’unico modo possibile tra i tanti probabili.

Mi trovavo a pensare a quel lunedì 21 aprile 1975, esattamente 45 anni prima, anche se ora lunedì cadeva il 20, ma cosa è un giorno di calendario di diversità su quasi mezzo secolo di vita?

Come avrei scoperto un anno dopo quando feci sparare la mia 21a batteria del Gruppo Vicenza su in Tirolo, in val di Fanes, sarebbe stato come tirare con un obice su un obiettivo a 8.200 metri e sbagliarlo di 50 centimetri: errore non calcolabile, se si pensa che le correzioni minime da apportare al tiro erano nell’ordine dei 50 metri!

Non ce l’avrebbero fatta i sottotenenti della 40a in giro per il mondo a sparare con i professionisti della Nato, non i nostri istruttori a Col Fiorito e neppure il nostro capo stecca a Sauris, anche se avesse sparato con la stessa maestria con cui aveva sagomato il suo cappello alpino, come neppure il cappellaio di Alice nel paese delle meraviglie avrebbe saputo fare.

Finii il servizio di prima nomina mercoledì 14 luglio 1976 salutando con i miei due compagni di corso gli ufficiali e il comandante del Gruppo Vicenza, a Brunico, in un modo singolare. Avevamo deciso di farci ricordare donando loro un orologio digitale, a me il compito di un breve discorso di commiato e parlai pensando alla mia esperienza.

Era stato un periodo bellissimo, ad esclusione di un rapporto non sereno col comandante della 19a, non la mia batteria, che si divertiva a rendermi la vita difficile; un ufficiale modesto e persona boriosa che sembrava ce l’avesse con tutti i sottotenenti, non solo con me e parlai loro dell’importanza dell’orologio. Dissi che non segnava solo le ore ma scandiva il tempo dei giovani sottotenenti che passava inesorabilmente, che poteva scorrere bene o male a seconda che loro, i comandanti, aiutassero a riempirlo di esperienze belle e positive e non obbligassero a sciuparlo, facendolo scorrere male e frettolosamente.

E il capitano sorrideva, come fanno tutti quelli che fingono di aver capito tutto ma in realtà han capito nulla.

Lasciavo definitivamente il servizio militare; avevo salutato due giorni prima tutti i miei artiglieri sotto le Cime di Lavaredo dove facevamo il campo estivo, guardandoli uno ad uno negli occhi, ben sapendo che non ci saremmo più rivisti e sperando, in cuor mio, che tutti avrebbero avuto un buon ricordo del loro sotto comandante di batteria.

Avrei iniziato un’altra vita, attaccando tutto al chiodo, meno il cappello, che avrei rimesso con orgoglio ad ogni adunata degli alpini e tutte le volte che avrei ritrovato i compagni del 79° corso allievi ufficiali. E le mie pedule, che resistono ancora oggi dopo 45 anni, passate solo due volte dal calzolaio, che per anni ho messo andando per sentieri e rifugi in alta val Seriana, in val Camonica e in val di Scalve, dove avevo una casa e da dove partivo per interminabili escursioni con la mia Hania, il fido pastore tedesco.

Lasciai Brunico il 15 mattina ma a Bolzano, invece di continuare per la via più breve, decisi di uscire dall’autostrada e feci il passo della Mendola, il Tonale, girai attorno all’Adamello, Edolo, val Camonica, Iseo e arrivai a casa. Non conoscendo le trame del destino, nell’antichità si diceva che poggiasse sulle ginocchia di Zeus e solo lui lo vedesse, ero certo che mai più sarei tornato a fare il militare.

 

Finito il servizio di prima nomina fui fortunato, iniziai quasi subito a lavorare in una multinazionale del Marketing e poi approdai alla corte di Berlusconi, che voleva consolidare il successo di Canale 5 e prendersi una fetta del mercato pubblicitario italiano.

Divenni uno dei suoi più stretti collaboratori, passando quasi tutti i sabati, con una decina di altri colleghi, nella sua villa di Arcore.

Ed ecco di nuovo un segno del destino: gli uffici erano a Milano due ma la prima volta che andai a villa Certosa rimasi a bocca aperta perché era ad un centinaio di metri dalla scuola dove mi ero recato a votare, accompagnato in ogni spostamento da un premuroso maresciallo dei carabinieri che mi ritrovai davanti, capo delle guardie, lo stesso che, nel giugno del 1976 avevo incontrato quando, per le elezioni politiche, da Brunico ero finito in Brianza con la mia batteria.

Per poco non ci abbracciammo perché una di quelle notti, girando per l’ispezione ai seggi finimmo alla scuola di un paesino. Era tutta illuminata, le porte spalancate e in bella mostra sul davanzale della finestra, il caricatore del garand! Trovammo il mio artigliere addormentato lungo disteso per terra con il fucile appoggiato al muro sotto la finestra e dopo che gli feci un tremendo cazziatone ce ne andammo in silenzio, io preoccupatissimo perché non sapevo cosa avrebbe fatto il maresciallo.

Dopo un po' mi disse pacatamente: signor tenente, ha fatto bene solo a sgridarlo e niente altro, sono ragazzi, un attimo di stanchezza non può rovinargli la vita, finita qui. Mi tolse un grosso peso dal cuore.

 

Arrivai a Susa il pomeriggio di domenica 10 giugno 1984, con la mia Giulietta turbodiesel, motore VM di Cento, che quando entrava in copia schizzava come un proiettile e fischiava come un razzo: avevo 31 anni, sposato con Rosella, ero un brillante dirigente in carriera, ottimo stipendio ed una nuova avventura da vivere intensamente, senza frenesia.

Giorno per giorno, non come il periodo di prima nomina, fatto di corsa e con la fretta che finisse; quante volte avevo pensato a quei nove mesi che avevo vissuto come chi, dovendo bere una bottiglia di un eccezionale vino di annata, invece di gustarlo un po' alla volta, centellinando ogni bicchiere, godendolo alla vista, all’olfatto e al gusto, aveva avuto fretta di finirla. Certo, era stato piacevole e mi era rimasto per sempre un ottimo sapore in bocca, ma che spreco!

Mi feci annunciare, entrai, salutai la bandiera, il Tenente Colonnello, mi presentai, scambiammo qualche chiacchiera e mi invitò a presentarmi a metà mattina del giorno dopo per ritirare tutto il necessario.

Il pomeriggio successivo, indossati gli abiti da giovani tenenti del Gruppo Pinerolo, ci presentammo al vice comandante e con la vista offuscata per poco non mi prese un colpo.

Nell’Iliade Ettore disse alla sua sposa: se non è mio destino non morirò e se è mio destino morire, nessuno mi potrà salvare. Quello era il mio destino? Davanti a me, stessa barba, stesso sorriso e stessi modi indisponenti, mi ritrovai quel famoso capitano della 19a di Brunico, con cui eravamo andati tanto d’amore e d’accordo e ora, col grado di Maggiore, anche capocentro tiro al Pinerolo.

Ebbi la sensazione che neppure mi salutasse e dopo le presentazioni di rito sardonicamente mi fece: bene tenente, questa volta sta qui con me all’ottava, coi muli.

E allora mi ripresi con un sorridente signorsì perché ancora non aveva capito nulla di me. Amo gli animali, avevo amato e rispettato alla Sausa quei pelosi compagni dalle lunghe orecchie, lo avevo dimostrato a Brunico, nella batteria di formazione durante il campo invernale, io che non avevo muli nella mia 21a, io che da 5 anni avevo Gilda, una cavalla polacca che curavo come un bambino e con cui, più di una volta, stanco dopo una interminabile giornata in giro per gli argini dell’Adda, mi addormentavo nel suo box, sulla sua paglia, con lei a fianco.

Non vidi il Maggiore per tutta la settimana, passata in Brigata per i corsi di aggiornamento, in visita al Gruppo Aosta e al Battaglione Susa e con i miei due colleghi ci trovammo il lunedì 18 mattina a rapporto al comando di Gruppo.

Eravamo in piedi ad aspettare quando arrivò un aitante Capitano, impettito e dal fare deciso. Ci mettemmo sull’attenti e salutammo.

Chi siete, domanda, gli ufficiali richiamati?

Signorsì e ognuno di noi si presenta.

Sei di Soresina? mi domanda; signorsì rispondo, provincia di Cremona.

Lo so risponde, dove fanno il burro; io sono di Mantova, a non più di 80 Km di distanza. Sapete dove andiamo a fare il campo, con la Brigata?

Signornò.

Il nostro Gruppo si schiererà tra le valli Giudicarie, la val Camonica e la val di Scalve, sotto l’Adamello, ci dice.

Ah sì, faccio io, ho la casa in val di Scalve. Gli passa un lampo negli occhi e mi domanda se conosco la zona. Certo che sì, rispondo, come le mie tasche, con la moto l’ho girata in lungo e in largo.

Bene, dice e ora scusatemi che c’è rapporto ufficiali e non voglio arrivare in ritardo e noi rimanemmo fuori ad aspettare una cinquantina di minuti.

Ero assorto nei miei ricordi, pensando che la mia avventura sarebbe passata proprio là dove credevo di aver salutato definitivamente la vita militare una decina di anni prima quando il giovane Capitano uscì per primo, si avvicinò a me e disse: lei tenente, viene con me alla quarantesima. E fu così che conobbi il capitano Giorgio Battisti, comandante della 40a batteria del gruppo Pinerolo, che con i suoi uomini aveva ancora sotto gli scarponi il fango del poligono di Otterburn, nelle colline tra Inghilterra e Scozia.

Caricai le mie cose sulla AR, andai a salutare il tenente veterinario Prestia con cui mi ero intrattenuto un paio di volte visitando i muli, per essere pronto ad affrontare le stravaganze del Maggiore, da cui rimasi alla larga; era una persona in gamba, un po' spericolato ma ero certo che sarebbe stato un ottimo ufficiale, da come lo avevo visto curare i suoi muli, specie uno che aveva una bruttissima infezione alla mentula e che lui curava con certosina pazienza.

Gli raccontai che andavo in quarantesima e lui, guardandomi con due occhi che brillavano, mi disse poche parole che mi resero orgoglioso ancor prima di essere presentato alla batteria che mi avrebbe considerato uno dei suoi figli: sei stato fortunato perché quella è una batteria d’eccellenza, gente un po' matta, che passa 9 mesi l'anno in addestramento di cui almeno 4 all’estero, sparando e misurandosi con i migliori artiglieri della NATO, ma quelli sono dei professionisti e i nostri ragazzi no e non sbagliano mai un colpo!

Non mancammo di salutare Narzisi, squisito e ottimo Capitano della 8a, molto amico di Battisti di cui era stato fino all’anno prima, da tenente, vice comandante alla 40a e partii per Rivoli dove conobbi il tenente Ambrogio Zaffaroni, in quel momento vice comandante della batteria, in arte Zaf.

Perché Zaf, biondo e con la barbetta, con quel timbro di voce particolare ed uno sguardo profondissimo era veramente un artista, un affascinante incantatore di serpenti, che stava al comandante Battisti come Mastroianni a Fellini; loro non parlavano, si guardavano e le cose succedevano, tutto qui.

Il Capitano mi lasciò al tenente Zaffaroni e l’iniziazione fu di poche parole: questa batteria fa parte del contingente italiano della Allied Mobile Force-Land, AMF-L, puntualizzò guardandomi in faccia con uno sguardo che non si fermava agli occhi ma ti entrava dentro. Siamo una delle 6 batterie da 105mm che formano la Force Artillery della AMF-L. Siamo appena tornati da un durissimo mese di esercitazioni a fuoco. Se lo ricordi.

Non fu facile entrare in sintonia con loro, successe non per merito mio, semplicemente mi portarono dentro il loro cerchio e per uno strano gioco goliardico, in batteria divenni per tutti il tenente Perego.

Ci preparammo alacremente per il campo e in una fresca mattina, una decina di giorni prima della fine di giugno, la 40a con i suoi automezzi si mise in marcia, retroguardia del Gruppo.

All’autogrill di Dalmine primo problema: l’8a è arrivata prima di tutti e ha intasato l’intero piazzale con i suoi muli da abbeverare, poi la 7a e poi noi e Zaf, che comandava la batteria perchè Battisti era a Roma, mi guarda negli occhi. Ma io sono nel cerchio e gli dico: saltiamo il nodo e andiamo avanti. Conosci la strada? E certo, ho la casa da quelle parti!

Partiamo, usciamo a Bergamo, prendiamo la val Cavallina, Gaverina, lago d’Endine, Lovere e via a sinistra per la val Camonica fino ad Edolo e poi ancora a sinistra, oltre il passo dell’Aprica, fino a un paesino dal nome strano, già in Valtellina.

Mettiamo la base e nei giorni successivi facciamo la ricognizione al passo del Venerocolo che, per non farci mancare nulla è ancora pieno di neve e gli artiglieri devono lavorare sodo per renderlo praticabile. Il terzo giorno la batteria, che ha l’onore di avere con sé il comandante di Gruppo stupito che alle 5 in punto fossimo pronti a muovere, parte per lo scavalcamento di un faticoso 2.300, che ci regala poi una lunga, interminabile discesa verso Schilpario.

Entravamo in val di Scalve, nota ai romani come “vallis decia”, da cui prendevano ferro e prezioso legname, abbracciati dallo stupendo scenario che le bellissime Orobiche sanno offrire, con la superba palestra della parete nord della Presolana in lontananza davanti a noi, sulla destra il passo del Belviso, dove passavano i contrabbandieri che portavano dalla Valtellina la merce che arrivava da Livigno e poi la valle del Gleno.

E pensai dentro di me che forse nessuno di loro sapeva che 60 anni prima lì si era rotta proprio la diga, si erano rovesciati milioni di tonnellate di acqua e fango e tutti i paesini della valle, chiusa da uno stretto budello dove passava la via Mala, vennero spazzati via in pochi minuti.

Arrivammo alla base, pochi km prima di Schilpario, tutti molto stanchi, qualcuno sfinito ma, non so perché, da quel giorno la batteria non vide più il Colonnello Comandante!

Cenammo allegramente con gli amici di Battisti, il capitano Narzisi e il tenente veterinario Prestia: non ebbi più modo di vederli per tutta la durata del campo ma la fama delle loro imprese ci precedeva ad ogni spostamento.

Narzisi aveva portato la sua batteria someggiata attraverso il passo del Vivione, unico sbocco a nord est verso la val Camonica dopo che per giorni avevano dovuto aprirsi la strada fra un enorme muro di neve, alto due o forse tre metri, che bloccava il passo, anche a mani nude! Circolava voce che un artigliere fosse caduto in un torrente e che il capitano lo avesse trattenuto per gli spallacci rischiando l’assideramento e si diceva anche che un mulo era caduto con tutto il carico giù da una scarpata e con i suoi artiglieri avesse impiegato un pomeriggio per recuperarlo.

Mi era capitata una esperienza simile, ugualmente impegnativa durante il mio campo invernale a Brunico da sottotenente, quando ci eravamo fermati lungo un sentiero a mezza costa e come succede sempre in questi casi i muli, curiosissimi ed approfittando della distrazione dei conducenti, spostano sempre la testa a monte in cerca di qualcosa, magari un filo d’erba da mangiucchiare e a volte si dimenticano del loro posteriore.

Il conducente, visto che le cose andavano per le lunghe si stava concentrando nell’arrotolarsi una sigaretta quando il mulo si mosse male, la zampa posteriore perse l’appoggio, rotolò per una ventina di metri lungo la costa innevata.

La scena, che sembrava avvenire al rallentatore, era allo stesso tempo ridicola ed agghiacciante perché il mulo, raccolte le zampe sotto la pancia, rotolava nella neve continuando a rimbalzare come una palla e fermandosi in fine ben piantato sulle quattro zampe, mezzo sepolto dalla neve, con il basto da una parte e il pezzo dell’obice dall’altra, continuando a sbattere la testa per togliere la neve che gli aveva riempito le orecchie e ringraziando confuso il suo mulo protettore.

Mi precipitai giù faticosamente, con la neve fino alla cintola e ancor più faticosamente cominciammo le operazioni di recupero. Il mulo non si era fatto assolutamente nulla ma non riusciva a muoversi, sprofondato come era nella neve; lavorammo di buona lena per preparare un sentiero che ci permettesse di riportarlo con gli altri, rimettergli il carico, dare una tirata di orecchie al conducente e riprendere la marcia.

A Schilpario invece il giovane veterinario era caduto sotto le grinfie dell’inquisizione perchè si diceva che fosse sparito per alcune ore, o tutta una sera o un giorno intero per una estenuante trattativa con un negoziante del posto sul prezzo del fieno e della paglia comprata, O forse, si diceva, con le sue due figlie!

La mattina dopo andammo in ricognizione: scendemmo la valle e a metà prendemmo a sinistra per una strada tortuosa che portava a Borno, tappa del giorno seguente, dove, dopo aver trovato un posto comodo per accampare la batteria, ci mettemmo in macchina per tornare a Schilpario e casualmente, ma proprio casualmente passammo davanti a casa mia.

Ne approfittammo per fare una doccia calda, la barba, ci mettemmo in ordine, due gocce di Arrogance pour homme che allora andava di moda e facemmo ritorno al Gruppo tra sguardi di meraviglia ed un filo di invidia di tutti, che scoprii non ci avrebbero mai fatto mancare: eravamo belli e rilassati come appena usciti da una sala massaggi.

Casa mia era all’inizio della val di Scalve, nel comune di Colere, ai piedi della Presolana dove dal rifugio Albani, punto di passaggio obbligatorio per chi si arrampica e per chi scende direttamente in centro al paese con gli sci attraverso il ghiaione o in mezzo agli abeti fino alla partenza della seggiovia, si alza maestosa la parete Nord, che a parere di tutti nulla ha da invidiare alle Dolomiti.

Sotto quell’incredibile muro ci passavo in estate, ogni settimana, con le mie pedule e il mio inseparabile pastore tedesco che, se avesse potuto, mi avrebbe seguito anche in inverno, nei fuori pista con Martino e Gianfranco.

Da Schilpario la mattina dopo la batteria partì per la nuova destinazione con aggregato a noi un altro tenente come me richiamato e che per entrare nella 40a lui, insegnante alla Normale di Pisa e persona assai devota, avrebbe venduto l’anima al diavolo.

Quando entrammo in Borno ci mancò poco che facessero suonare le campane ma di certo si presentò il sindaco, il parroco e metà dei paesani, coi loro cappelli alpini e tanta voglia di chiacchierare, domandare, sapere.

Dovemmo lasciare ai sottotenenti il compito di acquartierare la batteria e noi venimmo assorbiti da un entusiasmo quasi imbarazzante in cui il comandante e il suo vice si muovevano con la naturalezza e il portamento di uomini di mondo.

Loro, che in tutti quei giorni non avrei mai visto a disagio o in difficoltà, che sembravano i Dioscuri Castore e Polluce.

Il giorno dopo la batteria fece una sgambata preparatoria alla impegnativa marcia del giorno successivo che, partendo da Borno l’avrebbe portata in sei o sette ore al passo Croce Domini, a cavallo tra la Val Camonica e le valli Giudicarie e fu quando rincontrai di nuovo il mio Maggiore.

La sveglia fu fatta alle tre e non mancò un fatto singolare: a un certo punto Zaf, mentre dirigeva le operazioni, tirò fuori casualmente dal taschino il libretto con gli appunti della batteria, lo aprì, sorrise e cominciò a cantare a squarcia gola:

…voglio una vita spericolata…voglio una vita come Rin tin tin!

Lo guardavano tutti stupiti e anche un po' preoccupati meno che Giorgio ed io; lo capivamo e certo che lo capivamo.

Alle 5 la batteria si mise in marcia e a me, che avevo un fastidioso dolore al ginocchio, venne dato il compito di far sbaraccare e portare tutta la base a destinazione e alle 7 siamo già pronti, con larghissimo anticipo sulla tabella di marcia.

Faccio un salto a Edolo, al campo base del Gruppo e in un’oretta e mezza sono di ritorno, mi dice il maresciallo Vuono e partì ma alle 9,30 non era ancora tornato, cominciai a preoccuparmi e mi avviai allora alla volta di Edolo, sperando in cuor mio che non gli fosse successo nulla e quando arrivai, mentre l’autista andava a cercarlo, mi sembrò corretto presentarmi alla tenda comando.

Mi annunciai, entrai e seduto vicino al tavolo, in un modo stravagante, come se stesse scivolando dalla sedia, c’era il mio Maggiore, che senza rispondere al saluto mi disse: cosa ci fa qui, tenente?

Sono venuto a prendere il mio maresciallo e mi sembrava mio dovere passare a salutare, risposi.

Mi osservò attentamente, col suo sorrisetto indisponente e disse: non lo sa, tenente, che al mattino ci si fa la barba?

Cosa avrei dovuto digli, che alle tre di quel mattino, mentre lui si rigirava nel letto, io ero già in azione? Risposi signorsì, spostai leggermente il piede destro in dietro, gli battei rumorosamente contro lo scarpone sinistro, mano alla visiera, dietrofront e via, a passo deciso, verso l’uscita.

Dove va tenente?

A farmi la barba, signor Maggiore, risposi molto semplicemente. Ricuperai il maresciallo, gli automezzi che ci aspettavano e raggiungemmo una batteria stremata in cima al passo, all’orario convenuto.

Il giorno dopo, domenica di riposo, andammo con tutta la batteria a Bagolino, paesino poco distante dalla base, all’imbocco della val di Caffaro che avremmo imboccato il giorno seguente per scendere al lago d’Idro; pochi artiglieri andarono a messa col pio tenente mio collega mentre la maggior parte seguì il sottotenente Bitti, che già allora sapeva apprezzare il sacro e il profano. Incontrai di nuovo Giuseppe, direttore generale di una importantissima casa automobilistica coreana, un po' di anni fa a Cannes mentre intratteneva da perfetto anfitrione una trentina di ospiti sulla spiaggia di un noto albergo, all’imbrunire, con ostriche e champagne.

Mi aveva fatto da subito un’ottima impressione!

Quel giorno fu l’unica volta che vidi Zaf sbagliare l’aggiustamento col pezzo base al primo colpo.

A Bagolino, dopo una decina di minuti che noi tre passeggiavamo serenamente, ci trovammo tutte le autorità del paese che venivano a farci omaggio, con in testa il capo gruppo dell’Ana della valle; si cominciò con l’aperitivo in ogni bar che incontravamo e finimmo a casa del capo gruppo a mangiare fette di salame spesse due dita, coppa, pancetta, salamelle, formaggi di capra, di pecora e di vacca e bottiglie di vino che misurammo a metri, ma… Ma il capo gruppo aveva due figliuole e un cruccio: la più bella era pacifista.

Nonostante Zaf fosse in forma splendente, nonostante le avesse provate tutte e le avesse promesso che al ritorno dalla esercitazione in Turchia le avrebbe portato la rarissima, costosissima, quasi miracolosa polvere di sito, non ci fu nulla da fare.

Era tardi quando lasciammo la compagnia, uscimmo impettiti, camminando diritti come le spade,concentrati solo nel mettere un piede dietro l’altro con gli occhi sbarrati cercando davanti a noi la nostra fida linea zero che ci portasse alla AR.

Solo molti anni dopo e casualmente capii l’amore che in quei posti avevano per l’artiglieria da montagna, oltre a quello naturale per gli alpini.

Proprio lì, a fine giugno del 1866 Giuseppe Garibaldi, con i suoi Volontari sconfiggeva gli austriaci risolvendo lo scontro, che si era messo malissimo per noi, proprio grazie all’intervento di quattro pezzi di artiglieria da montagna del Regio Esercito.

Era la battaglia di Monte Suello. Tra i vari episodi scritti su quel combattimento ci fu un duello con le sciabole fra un nostro capitano e uno austriaco; rimasero entrambi feriti ma l’austriaco, retrocedendo essendosi ritirati i suoi, fu prima colpito da una baionettata alle natiche e poi azzannato ad un polpaccio da un cane al seguito dei nostri, che per l’occasione fu chiamato Caffaro.

La mattina dopo fui mandato in avanguardia a Ponte Caffaro per trovare un posto adeguato, Battisti sottolineò adeguato, per la batteria che si sarebbe fermata a riposare per tre giorni. Ma io ero nel cerchio e lo trovai: un bel campo a 600 metri dalla strada provinciale ma nascosto ad occhi indiscreti da un boschetto di noccioli, a 800 metri dal paese, né troppo distante per non raggiungerlo a piedi né troppo vicino perché gli abitanti venissero a curiosare e a poche centinaia di metri dalla spiaggia del lago.

La batteria arrivò dopo un paio d’ore, si acquartierò e passammo il pomeriggio a mettere a posto ed in ordine tutto, compresi gli obici con quelle bocche che puntavano vanitosamente in alto; ci mettemmo a tavola, mangiammo abbondantemente e stavamo già pregustando un fresco gelatino per le vie del paese quando si presenta trafelata la guardia e parla concitatamente con Zaf.

Un attimo di silenzio, si alza e impreca: è arrivato il capo gruppo dell’ANA di Bagolino, il nostro amico, con tutta la delegazione, ci siamo dimenticati che li abbiamo invitati a cena in Batteria!

Quattro ordini secchi, ci fiondiamo ad abbracciare gli amici, li portiamo a spasso per l’accampamento e stiamo una mezzoretta davanti agli obici parlando di primo arco, di secondo arco e ci manca solo che lo mettiamo controcarro.

Quando arriva Bitti sappiamo che tutto è a posto, è proprio un ragazzo in gamba.

Non fu una serata facile ma nessuno di noi perse un colpo e contraccambiammo alla grande l’ospitalità che il giorno prima ci avevano riservato. Quella notte però non dormii benissimo.

Al mattino successivo andammo a passeggiare in centro e Giorgio mi portò dal parrucchiere; ma come, gli dissi, ci conosciamo da 15 giorni ed è la seconda volta che andiamo a farceli tagliare! Certo, rispose, bisogna sempre essere in ordine, metti che ci chiamino a rapporto.

Sembrava una giornata serena, senza una nuvola e passammo il pomeriggio a controllare la batteria, preparandoci allo spostamento del giorno dopo in val Chiese, quando ecco arrivare il temporale, annunciato dal tenente Pietrobon, ufficiale della batteria ma per l'occasione distaccato come nostro ufficiale di collegamento al Gruppo che ci invitava ad andare a rapporto dal Comandante; non ebbi modo di conoscerlo bene ma quando veniva in batteria era sempre e non per colpa sua, foriero di preoccupazioni, motivo per cui era guardato da tutti con sospetto e lui ne soffriva molto.

Guardai Giorgio e mi passai la mano tra i capelli tagliati di fresco; se lo aspettava?

Alle 19 entrammo a rapporto e per un quarto d’ora ci beccammo una vera lavata di capo, che a me onestamente sembrava eccessiva e del tutto fuori luogo; ci mancò solo che, al rimbrotto che la batteria non comunicava al Gruppo le novità del mattino e della sera, il Capitano rispondesse che in montagna le nostre RH4 non funzionassero, per infiammarlo ancor di più.

Poi all’improvviso, senza alcun preavviso o motivo apparente, come se nulla fosse, cambiando tono e argomento, con un sorriso amabile ci chiese se volevamo fermarci a cena con gli ufficiali del Gruppo.

Signornò signor Comandante, disse il Capitano, domani dobbiamo spostare la batteria e abbiamo ancora alcune cose da fare e come in una scena di un film che i tre protagonisti avevano provato centinaia di volte, salutammo nello stesso momento facendo un simultaneo dietrofront con un tempismo perfetto e uscimmo in fila indiana, lui, l’altro e il tenente Perego.

Ce ne tornammo alla batteria ma non volendo rabbuiare i ragazzi per quella ramanzina che forse noi soli ci eravamo meritati, andammo diritti e ci fermammo in un ristorante che aveva una bellissima terrazza vista lago, dove mangiammo benissimo e bevemmo ancor meglio, a cui facemmo seguire un bicchierino di grappa alla salute della batteria e uno alla salute del Gruppo e uno alla Brigata, uno al Corpo d’Armata e un paio d’altri non ricordo bene alla salute di chi e andammo a dormire felici e contenti.

Il mercoledì partimmo per la val Chiese, meta la Malga di lago Bissina che apriva alla val di Fumo; il viaggio non fu facilissimo perché su quei tornanti strettissimi un paio di ACM, con i freni non proprio in ordine, ci costrinsero a delle acrobazie da funamboli.

A metà tornante mettevamo sotto le ruote i fermi di legno in modo che il veicolo non retrocedesse, l’autista sterzava le ruote, giocava con la frizione, toglievamo i fermi, faceva retrocedere per inerzia il mezzo, rimettevamo i fermi, risterzava e via. Difficile da raccontare, molto più difficile da fare, ma ce la facemmo, arrivammo alla Malga e montammo l’accampamento che era molto ma molto più bello e in ordine di un campeggio poco lontano.

La mattina, dopo aver fatto colazione e sbrigata l’ordinaria amministrazione, Zaf mi fa: accompagnami in paese che devo fare delle compere.

Entrammo in un bel negozio di merceria, con al banco una signora sui cinquanta e lui, fissandola seriamente e senza scomporsi fa: buon giorno gentile signora, vorrei una mezza dozzina di mutande di carta.

Di carta? Si, risponde lui senza muovere un muscolo della faccia, quelle usa e getta.

Ma non ne ho, risponde lei. Non si preoccupi, dice Zaf, mi faccia vedere cosa ha; non le sembra vero, prende una decina di modelli, li mette sul banco e lui comincia a parlare dei diversi tipi di cotone e degli elastici, questo troppo molle, l’altro che stringe troppo, un modello troppo alto in vita, un altro è troppo piccolo, il boxer che non contiene bene e via così per una ventina di minuti.

A un certo punto penso tra me: vuoi vedere che adesso va in camerino a provarli e chiama la signora per farsi consigliare quello che gli sta meglio?

Alla fine ne compra una mezza dozzina, salutiamo una signora che ci guarda sollevata, usciamo, facciamo cento metri, svoltiamo ad un angolo e scoppiamo in una risata che dura fin quando arriviamo all’accampamento. Robe da matti.

Il giovedì mattina il capitano Battisti, Zaf e un paio di artiglieri partirono per la ricognizione della marcia del giorno dopo perché, essendo stati in vacanza tiro a sparare con la batteria in Inghilterra fino a poche settimane prima, non avevano potuto farle, le ricognizioni!

E li capii il senso delle parole che il giorno in cui ero entrato per la prima volta in batteria, quando per me il lei era ancora d’obbligo, il Capitano Battisti o il Tenente Zaffaroni, o tutti e due, mi avevano detto: noi siamo “duri e puri" e ci facciamo sempre un culo doppio, decida lei cosa vuol fare. Ricordo che deglutii e risposi signorsì.

Signorsì? mi dissero e si guardarono sorridendo.

Li accompagnai fin dove potei con la AR; rimanemmo intesi che ogni due ore ci saremmo tenuti in contatto radio e li lasciai mentre canticchiavano allegramente ”sole che sorgi libero e giocondo, sul colle nostro i tuoi cavalli doma, tu non vedrai nessuna cosa al mondo”...

Non ci furono problemi fin verso le 11, poi persi completamente i contatti radio, cosa non impossibile in montagna, visto che le nostre radio trasmettevano in modulazione di ampiezza, non proprio l’ideale per comunicare in valli strette e chiuse tra monti alti.

E se incontrassero il Gigiat pensavo, mitico uomo delle nevi che la tradizione popolare fa vivere su quei monti? Tranquillo, mi dicevo, lo convincerebbero a portar i loro zaini e verso le 15 arrivarono, più preoccupati che stanchi.

Sarebbe stata una marcia impegnativa, molto più di quanto ci si aspettasse e la mattina dopo tutta la batteria si mosse, in un’alba stupenda e luminosa con il sole che ancora non si vedeva, perché la val di Fumo si inerpica stretta da sud a nord e Helios con il suo cocchio trainato da muli alati faticava a scavallare la montagna.

A fianco della batteria scorreva il Chiese, davanti c’era l’Adamello pieno di neve, con il Carrè Alto, il Corno di Vigo e il Crozzon di Lares: bellissimi da vedere, marcia stupenda da raccontare ma durissima da fare.

La batteria arrivò alla base dopo quasi dodici ore di marcia, tutti stremati ma nessuno che si lamentava; guardavamo tutti il comandante e il suo vice, che in due giorni di là c’erano passati ben due volte.

E poi venne domenica ed io ebbi un 36 ore di permesso: il lunedì ci sarebbe stata una convention molto importante a Milano, a Canale 5 ed un mio carissimo amico e collega venne a prendermi.

L’alpino Claudio, di stanza a Paluzza nel 1974, 11° alpini d’arresto, lui perito meccanico e insofferente al sangue di cui non sopportava la vista e che alla domanda di chi ci sapesse fare col tornio alzò la mano: lo fecero assistente di sanità!

La mia partenza avvenne il pomeriggio ma la mattina ci aveva riservato un’altra bella sorpresa; tutta la batteria era a riposo dopo lo sforzo del giorno prima ed una parte degli artiglieri si stava facendo curare le piccole conseguenze di quella marcia dal nostro assistente di sanità, che era però dentista e svolgeva coscienziosamente il suo compito.

Anche il Comandante e il suo Vice erano passati sotto le sue grinfie perché i due giorni di faticaccia sotto il sole ed in mezzo alla neve li avevano abbrustoliti per bene ed avevano collo e spalle bruciate.

Stavamo chiacchierando allegramente, io a debita distanza per la puzza insopportabile della pomata con cui si erano spalmati, quando si presentò la guardia con al seguito due signori a modo, con un paio di valigette sotto braccio.

Non ci fu difficile capire del perché dell’atteggiamento circospetto e sfuggente del pio tenente richiamato; non sapeva più dove guardare quando, dopo che i due si presentarono come sacerdoti venuti al campo per celebrare la S. Messa, cercammo i suoi occhietti vispi.

Sarà stato un soldato duro e un comandante severo ma il Capitano Battisti li accolse con garbo, fece radunare la batteria e diede ai sacerdoti la possibilità di fare la funzione. Alla fine i due ci ringraziarono, complimentandosi per la partecipazione di noi quattro ufficiali ma io sapevo che se era sincera quella del mio collega, attenta la mia visti i trascorsi da chierichetto della mia giovinezza, la compostezza di Giorgio e Zaf credo fosse dovuta in larga parte ai dolori delle ustioni al collo che impedivano loro di muoversi liberamente durante tutto il rito!

Io e Claudio partimmo da Canale 5 nel primo pomeriggio di lunedì, terminata la convention al Jolly hotel di Milano 2; arrivai prima di sera, raccontai a Zaf e a Giorgio di Berlusconi, del grande imprenditore che era, della venerazione che i suoi uomini avevano per lui e loro mi ascoltarono incuriositi e accoglienti, come si fa quando ritorna un amico che si aspetta con piacere, ma con lo stesso sguardo brillante con cui il gatto e la volpe accolsero pinocchio.

Perché da parecchio avevo capito che quella copia era il gatto e la volpe, da quando proprio dieci giorni prima eravamo stati a Borno.

A Borno eravamo arrivati in tarda mattinata ed avevamo avuto il nostro bel daffare ad arginare l’entusiasmo del sindaco, del parroco e dei paesani, quasi tutti i maschi che avevano fatto gli alpini.

La batteria era sistemata, avevamo cenato presto e il Capitano ci aveva chiamati a rapporto per stabilire le cose da fare il pomeriggio del giorno dopo, visto che la mattina successiva avremmo fatto un’alzataccia.

Alla fine guardò Zaf e disse: tu e Perego, pronti che andiamo in missione. Ci fu un attimo di silenzio e di preoccupazione e tutti guardammo Zaf, che con gli occhi cattivi, lievemente socchiusi ed una ruca in fronte, come a dire...adesso finalmente andiamo a regolare i conti una volta per tutte, rispose con un secco signorsì.

Partimmo subito con la AR guidata dal Capitano, scendemmo stranamente taciturni in val Camonica ma non prendemmo a sinistra per Edolo, dove il Gruppo aveva la base, andammo a destra e in una decina di minuti arrivammo a Boario.

Boario era una ridente cittadina termale, nota per le sue acque e per la vita mondana che si svolgeva alle Terme, famosissime. Si diceva che negli anni cinquanta ogni sera una orchestra diversa intrattenesse gli ospiti, che durante il pomeriggio, seduti ai tavoli in un parco di alberi secolari, bevevano l’acqua servita in brocche portate da ragazze con candidi grembiuli e creste di pizzo inamidato.

Ecco, proprio il posto dove l’ufficiale Zaffaroni, ad inizio del novecento, sarebbe stato sfidato a duello, ogni fine settimana, da qualche marito geloso.

Proseguimmo e in un paesino appoggiato sul lago di Iseo fummo attirati dalla musica di un’orchestrina e da un allegro vociare; parcheggiammo e camminando uno a fianco dell’altro, il capo al centro, entrammo in una piazza dove tutti si divertivano a quella che sembrava essere la sagra del paese.

Quando ci videro, l’orchestra smise di suonare, ci fu dapprima silenzio, poi un mormorio ed infine un sonoro: gli alpini, viva gli alpini e la festa cominciò.

Bevemmo, mangiammo, chiacchierammo attorniati da decine e decine di persone fino a quando la volpe, bionda dagli occhi chiari, andò verso l’orchestra, si mise a confabulare, prese il microfono e cominciò a cantare.

Canzoni melodiche di tutti i tipi, alternandosi con l’orchestra che lo assecondava alla perfezione. E io che ballavo valzer, tanghi, mazurke, lenti e di nuovo valzer.

E il gatto ci guardava sorridente e soddisfatto, con lo sguardo sornione del felino che si diverte col topo prima di mangiarselo e con attorno a lui tutti che si complimentavano.

E lui sereno a sorridere, come a dire: ragazzi, questi sono i miei uomini, perché noi siamo così o non siamo. Finì con la volpe bionda che, circondato da una dozzina di belle ragazze, sul quadernetto della batteria che aveva preso dal taschino, scriveva nomi e numeri di telefono.

Per tutto il viaggio di ritorno canticchiò …voglio una vita spericolata, voglio una vita come quelle dei fiiiilm, voglio una vita esagerata, voglio una vita come Rin tin tiiiin, voglio una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormi maiiii.

Il martedì mattina, il giorno dopo il mio ritorno da Milano, tutta la batteria partì per l’ultima ascesa: l’Adamello.

Con il ginocchio che era tornato a farmi male accompagnai la batteria all’imbocco della val di Genova, con gli automezzi girai attorno alla base del ghiacciaio, abbandonai il Trentino e fatto il Passo del Tonale rientrai in Lombardia, non prima di aver lasciato alle mie spalle Vermiglio e la zona della Guerra Bianca, che gli austriaci avevano riempito di fortini a difesa del confine.

Stavo arrivando a Ponte di Legno in AR e stavo rifacendo una parte di un percorso che avevo chiaramente stampato nella mia mente e che avevo fatto un anno prima con Claudio, il mio amico alpino, e che avevamo ricordato pochi giorni prima, quando mi aveva riportato a Malga Bissina facendosi non meno di 500 km, ma tutti in macchina, uno scherzo per lui, non come gli oltre 800 che facemmo, in un solo giorno e tutti in moto.

Eravamo partiti a cavalcioni del mio Guzzi V7, prima serie con l’architettura del motore a V di 700cc, bianco con borse laterali e cupolone come le moto della polizia americana che si vedevano nei film, che mi ero comperato usato, primo di una lunga serie di moto di grossa cilindrata.

Il motore era decisamente robusto e semplice, visto che era stato pensato in origine come motore per automobile e aveva due imponenti cilindri in lega leggera che si trovavano esattamente all’altezza delle ginocchia.

La frizione era a doppio disco ma dopo qualche ora di utilizzo si induriva non poco, il cambio era a quattro rapporti azionato da una leva a bilanciere stranamente a destra e la trasmissione finale ad albero cardanico che, quando cambiavi e acceleravi, sembrava che la moto si coricasse su un lato.

Un buon forcellone posteriore la rendevano molto morbida e confortevole, ma il peso enorme, l’ingombro delle borse laterali con l’imponente cupolone, la velocità che a mala pena raggiungeva i 150 Km/h non la rendevano certamente la moto ideale per quella nostra avventura.

Non era importante sapere dove saremmo arrivati perché per noi contava andare in moto, andare in montagna, andare senza necessariamente una meta da raggiungere ma seguire le sensazioni che il viaggio ci avrebbe certamente procurato.

Avevamo percorso la sponda bergamasca del lago d’Iseo, quella più impegnativa e tortuosa, con la strada a tratti a picco sul lago e dopo Lovere ci eravamo inoltrati in val Camonica per prendere poi a destra per la prima tappa di montagna, Passo Croce Domini.

Continuammo per Bagolino, per quella lunga e piacevole discesa che porta a Ponte Caffaro, poi Pinzolo e Madonna di Campiglio, dove facemmo una piccola sosta con cappuccio e cambio pilota.

Ripartimmo e prendemmo per il Tonale, non senza un salto a vedere Pejo e i suoi antichi bagni e quando fummo a Ponte di Legno prendemmo a destra, per il Passo del Gavia fino a santa Caterina Valfurva, pezzo difficilissimo perché c’erano tornanti stretti e lunghi tratti di strada non asfaltata, non certo l’ideale per portarci una moto di non meno di 250 Kg a cui aggiungere i nostri 150. Ci fermammo a mangiare un panino, mettere benzina e via, attraversando Bormio, Tirano, Sondrio, Morbegno lungo tutta la Valtellina con i suoi meli in fiore, fin quando arrivammo verso Colico.

La moto volle continuare e noi fummo ben felici di assecondarla quando, invece di prendere a sinistra e scendere per la sponda di Lecco del lago decise di andarsene a destra, per la val Chiavenna e da lì portarci a Campodolcino.

Campodolcino era da sempre nei nostri cuori perché ci avevamo passato tutte le estati, da bambini, da ragazzi e da adolescenti.

Dopo un rabbocco al distributore dell’Agip, un giro per il centro che poi è la via che attraversa il paese, una sosta all’hotel Posta per un tè e un pasticcino, via per quei difficilissimi tornanti che portano fino al santuario di Gallivaggio, gli girano attorno e poi continuano fino a Chiavenna e prendere infine la via di casa, dopo aver attraversato tutti i paesini che stanno sulla sponda del lago e che era obbligatorio fare, quando ancora non c’era la superstrada con le sue gallerie.

Eravamo molto provati, anche se ci eravamo alternati alla guida, perché tutti quei tornanti da fare in discesa erano stati faticosi: ti avvicinavi, frenavi con l’anteriore, frizione, scalavi marcia e il robusto freno motore ti spingeva gli avambracci sul manubrio e le ginocchia sulle teste dei cilindri, col passeggero che per la decelerazione si appoggiava con tutto il suo peso sulle tue spalle, aumentando il carico da reggere; poi uscivi dal tornante, frizione, marcia lunga, accelerata, una dozzina di secondi, di nuovo frenata e via, da capo per ore e ore e ore.

Attraversammo Lecco, circonvallazione di Bergamo e arrivo a Soresina dopo 12 ore di moto; una settimana perché il polso sinistro ritornasse a funzionare, dopo aver tirato quella robusta frizione un numero incredibile di volte, ma molto, molto soddisfatti.

A questo pensavo sonnecchiando sulla AR quando, appena dopo Ponte di Legno, prendemmo a sinistra, ci infilammo nella val d’Avio e mettemmo la base lungo il torrente, a metà strada tra il paesino di Temù e Malga Caldea; il giorno dopo sarebbe stato di assoluto riposo, o per lo meno lo speravo.

Non fu così. La mattina era stata spassosissima con Vuono che mi aveva intortato con una delle sue storie: ci eravamo insaponati e ci apprestavamo a raderci quando si alzò e, con la faccia bianca di sapone da cui spuntavano due occhi furbi e due baffetti curati, cominciò ad andare avanti e in dietro lungo il torrente.

Pensavo cercasse qualcosa ma dopo un po', incuriosito, gli chiesi cosa stesse facendo.

Come, non lo sa? Mi rispose.

Non so cosa? Mi si avvicina e mi dice sottovoce: confondo la barba, la faccio aspettare e quando lei si stanca ed è convinta che ormai ho desistito, io la prendo alla sprovvista e zac, la taglio.

Quando smisi di ridere mi stravaccai ai bordi del torrente e mi addormentai ma dopo non so quanto tempo un artigliere trafelato mi sveglia e mi dice che da cinque minuti un elicottero gironzola sopra di noi.

Corriamo alla radio, ci mettiamo in contatto e giù un cazziatone violento perché il pilota non aveva risposte alle richieste che una AR andasse allo spiazzo del parcheggio della Malga, ad un paio di km dalla mia base.

Partimmo immediatamente e ci incrociammo con la macchina della 7a, la cui base era più a valle di noi e quindi più lontana dal punto indicato, ma erano stati più pronti a rispondere e più lesti a mettersi in movimento.

Dall’elicottero scese il Comandante di Gruppo bianco come uno straccio, stremato da dolori di stomaco e sommovimenti di intestino ma senza la forza per aprire bocca.

Feci un impeccabile saluto e con pronto buonsenso lasciai al tenente della 7a, anche lui richiamato come me, l’onore di portare il Comandante alla base del Gruppo e forse il rischio di beccarsi gli strali di quel tardivo intervento.

Non seppi mai cosa fosse successo al Colonnello, su al rifugio Garibaldi, perché ogni volta che lo chiedevo a Zaf o a Giorgio loro si stringevano nelle spalle, allargavano le braccia e dicevano: son cose che succedono, avrà preso un colpo di freddo!

Giovedì mattina la batteria scese a valle e fu quando accorciai di un’altra spanna il raggio del cerchio; verso le 10 mi misi in contatto radio per la seconda volta col Capitano per sapere come andavano le cose e lui mi disse che si, tutto bene ma che i ragazzi erano un po’ stanchi e, sapendo che era l’ultima marcia, non difficile ma molto lunga, c’era un po' di agitazione.

Vi vengo incontro, gli dissi, vi porto caffè, tè, qualcosa da sgranocchiare, per rendere meno faticosa la discesa. Ok rispose e fu così che caricai su due AR un po’ di roba e andai loro incontro.

Poco lontano dall’accampamento mi fermai ad un baracchino, comprai una quarantina tra coche e aranciate ghiacciate perchè la mattinata era assai calda, mi avviai verso Malga Caldea e mi fermai allo spiazzo dove era atterrato l’elicottero col Colonnello. La strada finiva lì o quantomeno era interrotta da una sbarra.

In verità la strada continuava, penso che portasse ad una centrale idroelettrica dell’Enel su un lago artificiale molto più in altro e noi, semplicemente facendo del fuoristrada in mezzo ai pini la superammo e continuammo.

Continuammo fino a quando il buon senso, in verità molto poco buon senso, ce lo permise ma ad una curva con un enorme sperone sporgente ci arrendemmo; una mezza dozzina di manovre da far accapponare la pelle e posizionammo le macchine già col muso rivolto a valle, dietro quell’enorme masso ed aspettammo.

Dopo una ventina di minuti cominciammo a sentire i rumori della batteria che si avvicinava e ci apprestammo ad un caloroso ben venuto quando da dietro lo sperone apparve il tenente Rondano con la sua settima.

Era un buon ufficiale, un soldato veramente in gamba che conosceva tutti i segreti di una batteria con i muli e da Capitano sarebbe succeduto a Battisti alla 40a, ma era un po’ orso.

Io non mi aspettavo di vedere lui e lui non si aspettava di trovare qualcuno per strada; ci guardammo sorpresi, fece correre lo sguardo su tutto quel ben di dio in bella mostra sulle macchine che sembravano i furgoncini che si trovano sulle spiagge libere al mare, si incupì, mi guardò negli occhi e sbottò: cosa ci fa qui, tenente?

Con finta naturalezza risposi: aspetto la mia batteria. E chi glielo ha detto, aggiunse un poco indispettito. Il mio Capitano, risposi con semplicità.

Quando poi arrivò la 40a mi sembrò di essere la Befana che porta i doni ai bimbi buoni. Li precedetti alla base, dove un piccolo contrattempo attendeva Zaf; quando eravamo partiti da Malga Bissina, il tenente mio collega, che oltre che pio era anche molto meticoloso ed ordinato con le sue cose, si era preso spazio spostando quelle di Zaf vicino alla tanica di gasolio stivata nel rimorchietto, la tanica non era ben chiusa, il viaggio era stato lungo e tortuoso e il gioco era fatto.

Come dire, non fu proprio felicissimo di trovare la sua tenda e parte della sua roba imbevuta di gasolio e nonostante la costernazione del mio collega non mancò di farglielo presente, con quel garbo tipico che i militari sanno avere in certe circostanze!

Lo ospitai con piacere nella mia tenda ricordandogli di cosa mi era successo parecchi anni prima, durante l’ennesima avventura con Claudio in quel di Campodolcino; appena dopo la chiesa, prima del torrente Rabiosa, parte la strada che porta alla frazione di Fraciscio dove, lasciata la macchina e zaini in spalla, ci incamminammo lungo il sentiero per l’Angeloga.

Era una camminata di un paio d’ore abbondanti ma essendoci attardati a passeggiare in paese, arrivammo abbastanza tardi; piantammo la canadese a due posti, che c’eravamo fatti prestare, in un campo poco distante dalla stradina e da una malga, accendemmo il fornelletto, ci preparammo degli spaghetti che mangiammo mezzo crudi perché non eravamo riusciti a far bollire l’acqua, facemmo quattro chiacchiere sotto un bellissimo cielo stellato e ci infilammo nei rispettivi sacchi a pelo.

Dormii abbastanza bene ma a un certo punto cominciarono a sentirsi strani rumori tutto attorno; non capivo se stavo sognando o meno ma continuavo ad avere la sensazione che qualcosa si muovesse sotto la tenda e contro le sue pareti ma non avevo voglia di aprire gli occhi e mi crogiolavo nel tepore del mio sacco.

Quando proprio non ne potei più e finalmente li aprii ben bene, per essere ancor più sicuro mi inforcai gli occhiali, davanti a me apparve l’azzurro terso del cielo che entrava dal triangolo della tenda.

Il malgaro aveva fatto uscire di buon mattino le mucche dopo averle munte, curiosissime si erano avvicinate alla tenda, una aveva brucato l’erba proprio davanti all’ingresso ed alzando la testa, con un corno aveva fatto una stupenda apertura che correva parallela per tutta la lunghezza della cerniera di chiusura della tenda, per giunta neppure nostra!

Possiamo proprio dire che ce ne tornammo a casa scornati e non fu facile spiegarlo all’amico che ce ci aveva prestato la tenda.

In val d’Avio rimanemmo tre giorni godendoci un meritato riposo e iniziando i preparativi per il rientro a Rivoli, giorni che non furono senza rischi e pericoli.

La prima sera andammo dopo cena a Temù e finimmo in una osteria a guardare degli avventori che giocavano a scopa e a briscola con le carte piacentine, che io e Giorgio conoscevamo benissimo perché erano in uso nel mantovano e cremonese.

Ci invitarono a giocare ma ci schernivamo, dicendo che non eravamo allenati e neanche tanto bravi; non preoccupatevi, disse uno degli avversari, se anche perdete, le consumazioni le offriamo noi.

E no, disse Zaf che insisteva perchè giocassimo, il gioco è una cosa seria, chi perde paga. E giocammo tutte e tre le sere e vincemmo sempre, senza che scoprissero che con dei segni convenuti che solo noi conoscevamo, ci segnalavamo le carte da giocare.

Non si doveva, ma ci eravamo accorti che lo facevano anche loro, quindi eravamo alla pari e semplicemente eravamo più bravi noi.

La seconda e la terza sera Zaf ci accompagnava ma poi, con la scusa di ammorbidire degli stupendi scarponi che aveva comprato, ci lasciava e ricompariva in tenda a notte avanzata.

La prima mattina infatti eravamo andati a Temù e lui e Giorgio avevano passato quasi un’ora a tirare sul prezzo di due paia di stupendi scarponi da montagna, con uno scaltro negoziante che non mollava uno sconto di 10.000 lire per paio.

Verso mezzogiorno eravamo capitati di nuovo nei pressi del negozio quando vedemmo il proprietario uscire ed allontanarsi in macchina; ci fiondammo dentro dove trovammo, era sicuramente opera del fato, le sue due figlie. Non fu difficile confonderle e comprare gli scarponi con lo sconto che il gatto e la volpe spergiuravano di aver concordato prima col loro padre.

Lunedì 16 luglio, levato il campo, partimmo con destinazione Rivoli non senza un giustificato nervosismo: si era rotto il fermo che teneva agganciato il filo dell’acceleratore alla manopola della Guzzi 500 del nostro motociclista e dal Gruppo non era arrivata nessuna disponibilità a trasportare la moto con uno qualsiasi degli autoveicoli, della serie arrangiatevi.

E il motociclista, visto che Dio li crea e poi li accoppia, si arrangiò: fece un occhiello col filo rotto, vi fissò un pezzo di corda che fece passare sotto il manubrio e si mise in marcia con un vero e proprio acceleratore a mano.

Partimmo alle 5 ed andò tutto bene fino nei pressi di Alessandria, in un punto dell’autostrada che ci separava di non più di tre ore dalla caserma.

La colonna si era fermata e dopo un paio di minuti, visto che non ripartivamo, superai tutti gli automezzi fermi in bell’ordine sul ciglio e recuperai la testa del convoglio. Vidi Battisti che camminava avanti e in dietro con le mani sui fianchi guardando giù dalla massicciata della autostrada e Zaf che mi veniva incontro camminando.

Successo qualcosa? gli domando.

No no, il motociclista ha avuto un colpo di sonno ed è finito giù nella scarpata.

Si è fatto male? gli chiedo preoccupato. No, si è solo rotto il pollice, risponde, ma per fortuna la moto non si è fatta nulla e può ripartire.

Ripartire? Si, il motociclista non può adoperare le dita e gli abbiamo legato la corda al polso, così può continuare ad accelerare.

Ripartire? Corda al polso? Accelerare? Non ci posso credere, tra tanti matti il motociclista deve essere il peggiore! Faccio sfilare la batteria, mi rimetto in coda ed arriviamo a Rivoli sani e salvi poco prima delle 16; è meglio che questa storia non la racconti a nessuno, mi dissi, perché potrebbero ricoverarci tutti.

Il campo, quell’incredibile campo, lo terminammo a modo nostro quella sera. Era una bella serata, limpida e un po’ afosa, eravamo usciti a cena per festeggiare tutti gli scampati pericoli, avevamo mangiato dei piatti di spaghetti alti una spanna ed eravamo andati a gironzolare per Torino sulla Ritmo rossa del Capitano; Giorgio al volante, io dietro a Zaf e al mio fianco l’altro tenente richiamato, quello che cercava di portare sempre la batteria a messa la domenica.

Era l’ultima sera che ci vedeva tutti assieme, il giorno dopo Giorgio sarebbe andato in licenza e non lo avremmo più visto; ci muovevamo senza meta, stanchi per la giornata lunghissima ma senza nessuna voglia di andare in branda, come fanno i ragazzini che, festeggiata la fine dell’anno scolastico, si stanno lasciando e sanno che a settembre ognuno se ne andrà per conto suo, in un istituto scolastico diverso.

Ci fermammo lungo un marciapiede, continuando a parlare del più e del meno e guardando le persone passeggiare lungo il viale, in una piacevole serata estiva che solo Torino sa regalare. Eravamo fermi da una mezzora quando vedemmo venire verso di noi una donna intrigante, alta, mora, bel tipo, tacco 12 ed una sottana con uno spacco da far paura. Arrivata a neppure un metro da noi, con una plastica mossa studiata, prende i lembi dello spacco e li scosta: non aveva le mutandine.

Ma non era neppure una donna ed il mio collega, con una memorabile esclamazione, nascosta la faccia tra le mani, si buttò tra il suo sedile e lo schienale di Giorgio.

Dopo qualche secondo di stupore ci mettemmo in marcia e ce ne andammo ridendo a crepapelle ma ci vollero dei buoni minuti prima che il mio collega uscisse dalla tana nella quale si era rifugiato, si riprendesse e cominciasse a dire: non è possibile, non è possibile, io di qua non ci passo più, datemi il nome della via che la cancello dallo stradario!

Salutai Giorgio la mattina dopo e nei pochi giorni restanti uscii un paio di sere a cena con gli artiglieri a raccontarci le nostre impressioni sui giorni passati assieme e un paio di sere con Zaf a mangiare delle pizze, passeggiare in una Torino misteriosa, parlare di filosofia, di religione, di esoterismo:

Camminavamo per le strade di quella città magia ed io lo ascoltavo mentre mi parlava del munt Musinè, spoglio e poco ospitale monte di origine vulcanica, popolato fin dal neolitico da tribù celtiche che vivevano all’imbocco della val Susa e delle storie che erano fiorite attorno lui. E mi parlava di ufo e di alieni, di grotte incantate e di maghi e di lapidi alla base del monte, con la stessa serietà con cui parlavamo di obici, di dove si potesse arrivare con la sesta carica o come il puntatore di sinistra non dovesse mai prendere come riferimento un campanile o una casa o qualsiasi cosa che il nemico avrebbe potuto centrare, facendotelo scomparire dalla vista.

Sembravamo un po' spaesati, ci mancava l’azione, l’avventura, ci mancava molto il nostro Capitano; salutai il Gruppo e i suoi ufficiali la sera di sabato 21 luglio, ridendo, scherzando e raccontando barzellette e, non so perché, con il mio Maggiore che volle a tutti i costi tagliarmi la cravatta di Marinella.

Partii verso mezzanotte per tornarmene a casa, dopo 40 giorni di una stupenda avventura, con il desiderio di riabbracciare mia moglie, rivedere la mia casa, ritrovare i miei amici ma guidai senza fretta. La mia Giulietta rombava piano, ascoltavo un CD di Gino Paoli e mi assaporavo quel buon profumo che avevo in bocca e che non avrei mai scordato.

Quella volta mi ero gustato quella stupenda bottiglia di vino, che il destino aveva stappato per me, senza fretta, un bicchiere alla volta, centellinandone il contenuto nel modo migliore, in compagnia dei miei amici.

Andai definitivamente in congedo una decina di anni fa, avevo il grado di primo capitano e credo, ironia della sorte, di aver raggiunto il grado di Maggiore ma non è di questo che volevo parlare. Volevo raccontare dell’orgoglio di essere stato, anche solo per un po' più di trenta giorni, uno della quarantesima batteria, un suo ufficiale.

Tantissime volte ne ho parlato e sempre con gioia ed emozione, centinaia di volte mi sono sognato di quel campo e di essere richiamato e, se nel leggere di quei giorni avventurosi vi è sembrato che abbia esagerato è perché mi è difficile ormai separare il vero dal sogno, dal fantastico.

Se qualcuno non mi crede, vada da quelle parti e chieda di quella stupenda batteria che tra giugno e luglio del 1984 se ne andava superba e fiera, su per quei monti e attraverso quelle valli e come gli Achei che muovevano indomiti all’assalto delle porte Scee di Troia, anche lei comandata da Agamennone e Menelao e, tre passi indietro, dal tenente Perego.

 

Tenente Perego?

Scusate,

Tenente di Artiglieria da Montagna Ernesto Pala

Quarantesima Batteria

 

Pensai di mettere per iscritto questi miei ricordi l’anno scorso, perché erano passati 35 anni da quando tutto era accaduto ed avevo cominciato a ripercorrerli nella mia mente con gioia ed anche con stupore, tanto mi sembravano ancora vivi dentro di me, quando decisi di non farne niente.

Aspetterò che passino 40 anni, pensai, visto che è il numero della mia batteria, la batteria che mi accolse con amore e di amore l’ho contraccambiata.

Poi questo anno è arrivato il coronavirus, con i suoi drammi e i suoi lutti e ho pensato a come siano incerti i sentieri della vita e come forti siano invece i legami con chi ti ama e con gli amici.

Ho pensato che la vita è veramente legata a un filo e che il filo si può spezzare in qualsiasi momento e ho scritto.

con la collaborazione di:
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